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C’èanche Vittorio Sgarbi in Lei mi parla ancora, il film di Pupi Avati in cui i suoi genitori, Giuseppe Sgarbi e Rina Cavallini, sono protagonisti assoluti. E domani sera, sul palco della Milanesiana a Bormio, ci sarà anche lui.
Vittorio Sgarbi, da figlio come ha reagito vedendo i suoi genitori in un film?
«Tutto risale a qualche anno fa, quando lessi il primo libro di mio padre. Avevo un ottimo rapporto con lui, ma lo consideravo destinato alla dissoluzione, della memoria e del passato».
E invece?
«È un classico: prima ero in conflitto, poi l’ho scoperto a 93 anni… Il titolo del suo primo libro, Lungo l’argine del tempo: memorie di un farmacista, è un riferimento all’idea che, sul fiume, avesse trascorso i suoi giorni più felici, a pescare: da limite fisico, l’argine diventa metafora della vita. E poi ha scritto Non chiedere cosa sarà il futuro, da un verso di Orazio, trovato nella nostra casa a Ferrara, che era stata quella di Ariosto».
Poi è arrivato Lei mi parla ancora.
«Mia mamma era morta, e lui volle fare un libro solo su di lei. L’ultimo, Il canale dei cuori, non l’ha visto stampato. Questi quattro libri compongono la tetralogia di un uomo capace nello scegliere i temi: la guerra, le relazioni, i figli, il tempo…»
E quando Pupi Avati ha fatto il film?
«Due cose. La prima: non poteva mancare il ponte in chiatte fra Ro Ferrarese e Polesella, quello che, nel film, i miei attraversano da giovani, in bicicletta. La seconda riguarda me: sarei apparso solo durante l’acquisto del quadro di Guercino, altrimenti avrei esondato lo spazio. Io gli avevo proposto di eliminarmi del tutto e di farmi vedere solo in televisione, dai miei, mentre urlo negli anni ’90».
Da anziani, suo padre è Renato Pozzetto, sua madre Stefania Sandrelli.
«Due ottimi attori. Pozzetto ha superato sé stesso: è riuscito a diventare mio padre, a muovere le mani come lui, rendendo il pathos della sua età tarda. Lo chiamo papà…»
Ma nella vita, da figlio, come vedeva i suoi genitori?
«Mia madre era severa. Sentivo che i miei erano un ingombro, e litigavo con loro; poi però li ho “rieducati” e sono diventati miei coetanei, hanno assunto il mio pensiero, e mia madre è diventata modernissima».
Insomma è stato un figlio ribelle?
«Appartengo a una generazione di lotta, di contestazione. Quando avevo 15 anni, fra il collegio e la lotta, i miei genitori rappresentavano per me un mondo superato. Fino a che li ho fatti diventare miei coetanei, complici».
È più difficile essere genitori o essere figli?
«È più difficile essere padre. Sono un nichilista tale che figli non ne avrei fatti… Io mi sento figlio, non padre. Perché padre è facile diventarlo, ma non esserlo: ci vuole vocazione. Il figlio è una realtà passiva, invece essere padre richiede una volontà di investire sui figli». «Al dolore non mi sottraggo, soffro adesso di non poter telefonare a mia madre… Mia sorella è stata molto vicina a lei nel declino, è diventata genitore. Io sono stato pessimo: come padre e come figlio».
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