Ha sentito Ranieri?
«Gli ho telefonato prima della partita con il Bari. Mi raccomando, gli ho detto, guarda che tutta l’Isola è a tuo favore. Lui era un po’ commosso e un po’ teso per la gara».
Cinquanta minuti al telefono con Gigi Riva sono quasi un miracolo. Per certo un regalo della leggenda del Cagliari, l’uomo che ha riscattato un intero popolo con il suo tiro mancino, portando in Sardegna l’unico scudetto della storia. Era il 12 aprile del 1970 e sul campo dell’Amsicora Rombo di Tuono infilava con Bobo Gori i due gol della vittoria allo stesso club contro il quale i rossoblù di Claudio Ranieri hanno appena riconquistato la Serie A. Spegne la televisione, si mette comodo sulla poltrona, giura che non sta fumando nessuna sigaretta: «Le ho già fumate prima, ma non chiedermi quante perché mi vergogno».
Il suo ricordo più bello?
«Beh, lo scudetto. Avevamo festeggiato con tutta la squadra. Gli scapoli vivevano insieme in una foresteria e i tifosi venivano anche di notte a tenerci svegli».
De André è stato la sua colonna sonora. Ha mai visto un suo concerto?
«Sì, una volta, ma non l’ho aspettato alla fine perché dovevo prendere l’aereo. Ero già stato a casa sua, avevamo brindato con un bel po’ di whisky, vincendo entrambi la timidezza».
Nel docufilm che da ieri sta trasmettendo Sky, «Nel nostro cielo un rombo di tuono», c’è una scena in cui voi due siete di spalle. Per coglierne tutta la dolcezza bisogna aspettare i titoli di coda.
«Lo so… Anche se devo dire la verità: il film l’ho visto solo all’anteprima e ho una gran confusione in testa, ero emozionatissimo. Devo rivederlo da solo in casa con calma».
È riservatissimo: come ha ceduto a Riccardo Milani, che ha firmato la pellicola?
«Ma infatti la prima volta che mi ha mandato a dire che voleva fare un film su di me non ho detto sì. Poi è venuto lo stesso a trovarmi, mi ha spiegato cosa intendeva fare ed era una bella storia. È stato molto corretto sia con la Sardegna, perché la ama anche lui, sia con noi giocatori».
Oggi quale squadra le piace?
«Non seguo più il calcio. Cagliari a parte, mi piace solo la Nazionale: ora, dopo il buio, si è rimessa a posto».
Le sue partite più belle?
«Le partite importanti erano quelle di campionato contro Juventus, Milan e Inter: quando le battevi era una bella soddisfazione».
Tutti la volevano e lei, testardo, non ha ceduto nemmeno al miliardo offerto dalla Juve.
Ride. «Quando Arrica, il mio presidente, scoprì che non andavo, non fu contento per niente. Ma non sono testone: io ero una persona chiusa, avevo avuto un’infanzia tragica, i miei genitori erano mancati presto. Poi sono venuto a Cagliari e abbiamo costruito una gran bella cosa: lo scudetto era il sogno di ogni squadra».
Lo avete realizzato con Manlio Scopigno.
«È stato un maestro, un fratello maggiore: mi ha insegnato a vivere. Mi diceva: perché ti incavoli? Vieni, risolvi il problema. Lo sogno ancora».
E i suoi genitori li sogna?
«Sì, anche se so già che è impossibile ritrovarli in casa il giorno dopo e mi devo rassegnare. Mi spiace solo di non aver dato loro niente delle soddisfazioni che mi sono tolto io, non ho potuto farli partecipare, non hanno vissuto quel periodo, anni meravigliosi. È un vero dispiacere».
Come va con Gianna, la mamma dei suoi figli Nicola e Mauro?
«Bene. Mi viene a trovare tutti i giorni. Era un nostro desiderio: per me è un punto di riferimento».
Chi altro riceve in casa?
«Qualche compagno di squadra di allora e tutti gli amici importanti. Organizziamo delle cenette qui, cucino io le bistecche, mi piace rigirarle e portarle a tavola».
Ha perdonato Norbert Hof, il «boia del Prater» che le spezzò una gamba durante Italia-Austria nel 1970?
«Ma sì, l’ho perdonato. Certo, poteva evitare quell’entrata. Però dopo due anni mi sono fratturato un’altra volta e lì mi sono fatto male da solo…».
Ha digerito il Pallone d’oro dato a Rivera e non a lei?
«No, non ancora. Mi era stato promesso che l’anno dopo sarebbe toccato a me e poi invece mi sono fatto male».
Vogliamo parlare delle ammiratrici di allora?
«Aspetto ancora un po’ prima di raccontare le follie che hanno fatto, cose che non erano normali…».
A quale maglia è più affezionato?
«Ne ho di tutti colori, ma per me la maglia più bella resta quella bianca, pulita, senza sponsor, dello scudetto».
Quando torna allo stadio?
«Mai più. Mi piglia l’agitazione. Invece mi devo mettere in testa che la vita è questa».
Pochi mesi fa è scomparso Pelè, due anni prima Maradona: leggende che ha conosciuto. Un giorno lontanissimo giocherete insieme in Paradiso.
«Eh, non so se sarà lontanissimo… La loro morte mi ha fatto effetto. Alla mia età prima di dormire sei un po’ teso al pensiero: non è che la morte sia una grande cosa».
La depressione come va?
«Va e viene. Ma adesso l’ho un po’ superata».
Il suo ricordo più bello?
«Beh, lo scudetto. Avevamo festeggiato con tutta la squadra. Gli scapoli vivevano insieme in una foresteria e i tifosi venivano anche di notte a tenerci svegli».