UN PAESE CHE NON INVESTE SUI GIOVANI È UN PAESE SENZA FUTURO

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CARTOMANZIA GRATIS NEWSPer ottenere una pensione un minimo decente i giovani di oggi dovranno lavorare ben oltre i 70 anni, senza peraltro mai avere la possibilità di uscite anticipate al contrario dei loro padri e dei loro nonni. Questo è il risultato perverso, ma purtroppo in qualche modo anche previsto, del passaggio al sistema di calcolo delle pensioni interamente contributivo, associato a stipendi sempre più bassi (nel 2021 i lavoratori under 25 hanno ricevuto in media 8.824 euro, il 40% della retribuzione media complessiva) e carriere sempre più precarie e discontinue, con i contratti a termine e quelli atipici che negli ultimi anni sono arrivati a sfiorare il 40% del totale. A lanciare l’allarme è il Consiglio nazionale giovani che ieri ha presentato una ricerca realizzata assieme ad Eures sulla «Situazione contributiva e futuro pensionistico dei giovani».

In base alle proiezioni di Eures i giovani entrati nel mondo del lavoro nel 2020 all’età di 22 anni in Italia raggiungeranno l’età pensionabile a 71 anni, il dato più alto tra i principali paesi europei. Quanto al valore delle pensioni atteso nei prossimi decenni, solo per fare un esempio. Il caso limite è quello dei lavoratori dipendenti che oggi hanno meno di 35 anni e che per ottenere un assegno pensionistico di appena 1.099 euro (1.577 lordi mensili, ovvero 3,1 volte l’importo dell’assegno sociale), dovranno restare al lavoro fino al 2057, determinando così un ritiro quasi a 74 anni (73,6). La combinazione di discontinuità lavorativa e retribuzioni basse per i lavoratori under 35 determinerà un ritiro dal lavoro solo per vecchiaia, con importi pensionistici prossimi a quello di un assegno sociale, «una situazione – rileva il Cng – che sarà socialmente insostenibile».

Per avere una pensione «dignitosa» centinaia di migliaia di giovani che oggi hanno meno di 35 anni dovranno lavorare in media fino a quando ne compieranno 74. E per dignitosa si intende poco più di mille euro al mese. È il dato più allarmante che emerge dalla ricerca «Situazione contributiva e futuro pensionistico dei giovani», realizzata dal Consiglio nazionale dei giovani assieme a Eures. Ma anche le altre cifre fanno riflettere, mostrando come nei prossimi anni si rischi l’esplosione di una bomba sociale. Gli under 35 potrebbero in teoria lasciare il lavoro dopo il 2050, cioè a 66,3 anni, ma l’assegno medio sarebbe di 1.044 euro lordi (circa 900 netti). Si tratta di appena il doppio dell’assegno sociale, dato a chi è praticamente incapiente.

Ma per andare davvero in pensione bisogna aver maturato un assegno che sia 2,8 volte superiore al minimo. Quindi bisognerebbe aspettare in media i 69,6 anni e l’importo dell’assegno raggiungerebbe, sempre in media, i 1.249 euro (951 euro mensili al netto dell’Irpef). Per avere un’entrata dignitosa, di 1.577 euro (1.099 al netto dell’Irpef), servirebbe quindi un’uscita posticipata a 73,6 anni, ovvero dopo oltre 52 anni di permanenza – in ampi tratti discontinua – nel mercato del lavoro. Per i lavoratori con partita Iva (sempre con permanenza almeno fino al 2057 e un ritiro a 73,6 anni) l’importo dell’assegno pensionistico sarebbe in media di 1.650 euro lordi mensili (1.128 al netto dell’Irpef), valore che equivale a 3,3 volte l’assegno sociale. Per loro la prima finestra utile di pensionamento si aprirebbe attorno ai 69 anni e prevederebbe un assegno pensionistico di 1.055 euro, cui corrispondono 806 euro al netto dell’Irpef.

Gli interventi potrebbero arrivare a partire dalla prossima legge di Bilancio. L’idea è istituire forme di garanzia per la previdenza pubblica. Ma anche agire sul riscatto della laurea. Se ci saranno i soldi potrebbe essere abbassato il costo di quello agevolato per gli under 35. Ogni anno riscattato, oggi, costa 5.776 euro. Così non si dovrebbe arrivare esattamente a una pensione minima di garanzia per tutti (i sindacati chiedono che sia di almeno 600-650 euro per ciascuno e ciascuna), ma verrebbero garantiti aiuti per far aumentare l’assegno, non gravando troppo sulle casse dello Stato. Una prima mossa già discussa è uno sgravio al 100% di un anno dal versamento dei contributi per promuovere l’occupazione degli under 30 nella consulenza finanziaria. Ad essere coinvolta sarebbe in primis Enasarco, ente di previdenza integrativa a cui gli agenti di commercio sono obbligati a versare i contributi sulle provvigioni. Tutti questi interventi, però, potrebbero far salire solo leggermente le pensioni medie dei giovani.

Che i giovani guadagnino in media meno delle persone con maggiore esperienza lavorativa di per sé fa parte di una norma accettata e accettabile. È il “quanto” in meno e le sue ragioni che sollevano problemi non solo di equità, ma di sostenibilità, tanto più che i salari medi italiani sono tra i più bassi in Europa. Un salario pari al 40% del salario medio, come è il caso dei giovani sotto i 25 anni, indica una situazione di fragilità economica che impedisce ogni progettualità. Non si tratta solo di salari inaccettabilmente troppo bassi, rispetto ai quali l’esistenza di un salario minimo legale avrebbe un effetto di protezione, ma di condizioni lavorative in cui si mescolano stage, tirocini più o meno efficaci a fini professionalizzanti, tempo parziale involontario, precarietà contrattuale e conseguente discontinuità lavorativa, in modo ulteriormente accentuato se si è donne. Il lavoro povero di oggi si tradurrà in pensione povera domani, con la beffa che, per ottenerla, bisognerà lavorare per più anni, ben dentro l’età anziana, rispetto a chi va in pensione oggi o ci è andato nei decenni scorsi. È noto da tempo il fenomeno per cui in media chi ha iniziato a lavorare presto, ha svolto lavori pesanti e con una remunerazione modesta in media non solo prende una pensione (a volte molto) più bassa di chi ha studiato a lungo, ha iniziato a lavorare più tardi e in occupazioni meno faticose e fisicamente usuranti.

Ne può anche godere per un tempo più ridotto, perché le sue speranze di vita sono più ridotte, non riuscendo sempre a fruire di tutta la ricchezza pensionistica maturata, che va a finanziare quelle dei più fortunati la cui vita sopravanza i contributi pensionistici accumulati. Oggi, con l’andata a regime del sistema contributivo, a questa disuguaglianza nelle chance di fruire della pensione per molti anni si aggiunge quella prodotta dal paradosso per cui saranno i lavoratori più poveri e con lavori fisicamente più faticosi, specie se hanno avuto una carriera lavorativa discontinua, a dover lavorare anche ben dentro l’età anziana per poter maturare il diritto a una pensione non miseranda. La fragilità economica delle generazioni più giovani ha effetti non solo sulle loro condizioni di vita e su ciò che possono o non possono fare. Ha conseguenze anche sulla società nel suo complesso, innanzitutto peggiorando il già squilibrato bilancio demografico. Giovani che, pur lavorando, non guadagnano abbastanza per mantenersi, pagare un affitto con continuità, far progetti al di là del quotidiano, difficilmente decideranno di avere figli.

La sovrapposizione di diseguaglianze generazionali e sociali rischia di diventare una bomba a orologeria, se non per tutta la coorte di età oggi sotto i trentacinque anni, certo per la parte più svantaggiata. I, e soprattutto le giovani a bassa istruzione, infatti, sono coloro maggiormente e più a lungo esposti alla precarietà lavorativa, ai contratti intermittenti e sotto-pagati, che non consentono di fare progetti a medio-lungo termine, non solo rispetto alle generazioni che li hanno preceduti, ma anche dei coetanei “più fortunati”, con una educazione migliore e con una dotazione di capitale sociale più ricca e articolata. Tra i lavoratori sotto i 25 anni, quelli in condizioni economiche più fragili sono la maggioranza. Invece di indugiare in una narrativa che vuole i giovani (poveri) come senza voglia di lavorare, sarebbe opportuno intervenire sulle condizioni i cui troppi di loro sono costretti a farlo.CONTINUA A LEGGERE SU CARTOMANZIA GRATIS

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