CARTOMANZIA GRATIS NEWSBlade Runner, Ridley Scott (1982)
Fuori Orario, Martins Scorsese (1985)
Ci sono dei film che funzionano come delle canzoni. Vecchi film che come vecchie canzoni, quando le ascolti, ti fanno pensare a un periodo della tua vita, con tutto il carico di nostalgia, di stati d’animo, di spettri hauntologici che contengono. Da provetto teenager anni ’80, i capisaldi della mia educazione visiva sono stati ovviamente Ritorno al futuro, i Goonies, Indiana Jones. Penso che niente più dei film che abbiamo visto da ragazzi abbiano il potere di influenzarci in senso letterale. Uscivi dal cinema inebriato dalla strana sensazione di essere “nella parte” anche per dettagli stupidi: un adolescente con piumino smanicato, Nike e skateboard; ma anche, andando parecchio più in là con l’immaginazione, un archeologo che combatte i nazisti con un frustino. Sono, però, altri due film degli anni ’80 quelli che conservo nella scatola delle cose della mia vita, come se fossero dei vecchi album con le foto di famiglia, e sono non necessariamente i migliori, ma quelli che ho rivisto (risfogliato) di più: Blade Runner e Fuori Orario. Due film diversissimi, ma che a pensarci ora hanno in comune due cose: l’ambientazione totalmente urbana (la Los Angeles del futuro e la New York del presente) e l’assenza pressoché assoluta di luce solare. Ma le differenze, appunto, sono di più. Laddove il film di Ridley Scott è cupo, lirico, immaginifico, con un Harrison Ford eroe romantico e cool, il film di Scorsese è invece satirico, nevrotico, grottesco, con un Griffin Dunne eroe impacciato e vittima degli eventi. Questi due poli hanno sempre fatto parte di me e forse il mio problema, ma qui entriamo nel campo delle confessioni, è che non ho mai saputo scegliere quale delle due cose essere.
Mysterious Skin, Gregg Araki (2005)
Sono tanti i motivi per cui Mysterious Skin, uscito nel 2005, è diventato un film cult, in particolare per i Millennial. Molti di noi l’hanno recuperato grazie al passaparola anche ben dopo la data di uscita, magari negli anni universitari, spinti verso Gregg Araki dall’aura che già circondava la sua trilogia dedicata alla “Teenage Apocalypse”, i cui frame riempivano Tumblr e i primi profili social. Tratto dall’omonimo romanzo di Scott Heim, Mysterious Skin è un punto fermo del nuovo cinema queer americano, una corrente di giovani autori, cineasti e artisti (Todd Haynes, Gus Van Sant e Tom Kalin tra gli altri) che tra gli anni Novanta e i primi Duemila ha raccontato storie e definito un’estetica ancora oggi rilevante. La prima volta che ho visto Mysterious Skin ero da sola in una città in cui mi ero trasferita da poco per studiare, l’avevo scaricato chissà dove e in pessima qualità, e ricordo di aver pianto moltissimo e di averci pensato per giorni. La crudezza di certe scene e la bellezza liberatoria di quel film arrabbiato hanno per sempre segnato il mio gusto estetico e, per certi versi, la mia visione delle cose. L’urgenza che è sempre presente nel lavoro di Araki, il suo sguardo affamato sulla giovinezza e sulle emozioni hanno demistificato un’età fin troppo stereotipata, restituendone la complessità e la brutalità che invece la caratterizza. La colonna sonora, i costumi e la fotografia hanno contribuito poi a rendere questo film (a dire la verità, tutti i suoi film) una vera e propria miniera di ispirazione per chiunque lo guardasse, confermandone la sua indecifrabile ma innegabile coolness, prima che questa parola diventasse abusata e priva di significato. Tutt* dovrebbero vedere Mysterious Skin e rimanerne sconvolti, almeno una volta.
Germania anno zero, Roberto Rossellini (1948)
Hiroshima Mon Amour, Alain Resnais (1959)
Akira, Katsuhiro Otomo (1988)
Il film che mi ha mostrato per la prima volta le immense potenzialità del cinema è stato Germania anno zero di Roberto Rossellini, un’opera che andava oltre il tempo e lo spazio, che raccontando il presente elaborava il passato e prevedeva il futuro, superando i limiti delle circostanze storiche e le piccinerie delle opinioni pubbliche (quanto è attuale ancora in questo momento, Germania anno zero, tra l’altro). Diversi anni dopo aver visto il film di Rossellini, ho scoperto che ne esisteva in un certo senso un gemello: Hiroshima Mon Amour, opera prima di Alain Resnais, scritto da Marguerite Duras (premiata con l’Oscar nel 1961), film che fece capire a tutto il mondo cos’era la nascente Nouvelle Vague e che parlava della guerra proprio come Germania anno zero. Dopo averlo visto, Eric Rohmer disse che «tra qualche anno, tra dieci, venti o trent’anni, capiremo se Hiroshima Mon Amour è stato il film più importante sin dagli anni della guerra, il primo film moderno da che esiste il sonoro». Non ci è andato troppo lontano, Rohmer: il film di Resnais e Duras usava il flashback come non si era mai fatto prima nella storia del cinema e spezzettava il tempo grazie a un modo nuovo di intendere un montaggio. E poi, esattamente come aveva fatto Rossellini, aveva il coraggio di parlare di quello di cui nessuno voleva parlare in tempi ormai di pace, di ricostruzione, di modernizzazione e boom economico: i traumi e le macerie della guerra, le voragini e i precipizi aperti nella coscienza collettiva da un evento – Hiroshima, in questo senso, è il luogo più importante della storia dell’umanità – che raramente negli anni successivi sono mai stati raccontati con una maestria, una dolcezza, un tristezza, un pragmatismo, una disillusione anche solo paragonabili. Per ragioni che non ho mai davvero capito neanche io, nella mia mente c’è sempre un terzo film che chiude questa successione iniziata con Germania anno zero e proseguita con Hiroshima Mon Amour: è Akira di Katsuhiro Otomo. C’entra la bomba, ovviamente, la premessa delle disavventure di Kaneda e Tetsuo, e la costruzione di un mondo che sarebbe potuto essere il nostro e che potrebbe, ancora e sempre, essere il nostro. Ma Akira per me non sta tanto nella sua storia spesso volutamente convoluta quanto nell’impresa produttiva che ora sappiamo essere stata necessaria alla sua realizzazione: l’invenzione di nuovi colori, il disegno manuale di migliaia e migliaia di celle d’animazione, gli animatori incaricati di disegnare delle bocche che riproducessero esattamente le parole pronunciate dai personaggi. Akira, con i suoi colori che sembravano muoversi e le sue forme che apparivano come se premessero sulla superficie delle schermo, tendendola, è il film che mi ha fatto appassionare all’animazione e che mi ha fatto capire che il cinema è un’arte, certo. Ma che, proprio perché è un’arte, non potrebbe esistere senza il contributo di schiere di artigiani formidabili i cui nomi raramente ci soffermiamo a leggere mentre scorrono i titoli di coda.
Il sapore della ciliegia, Abbas Kiarostami (1997)
C’è qualcosa che mi ipnotizza nei film in cui la cinepresa si fissa su un uomo che guida, e tu, spettatore, non vedi dove va l’uomo, ma lo devi immaginare da come muove le mani sul volante, da come sposta gli occhi dalla strada ai retrovisori, a volte tranquillo, altre allarmato. Quasi tutto Il sapore della ciliegia si svolge in macchina. È un Land Rover color crema, e il protagonista, il signor Badii, lo guida su delle colline alle spalle di Teheran spoglie, piene di polvere e corvi, dove escavatrici e cantieri stanno macchinando nuovi quartieri. È autunno, la terra è gialla e sabbiosa. Badii vuole uccidersi e cerca qualcuno disposto a seppellirlo. È ipnotico tutto, nel film di Kiarostami che ha vinto la Palma d’oro a Cannes nel 1997 e il Pardo d’oro a Locarno lo stesso anno. Come altro si spiegherebbe, altrimenti, un film capace di mostrare nient’altro che questa ricerca per un’ora e mezza di girato? Da ragazzino avevo spesso idee di racconti simili, mi appuntavo il soggetto su un foglio e provavo a farle diventare una decina di pagine. Però non sapevo come far succedere le cose, con le parole e basta, e mi fermavo dopo poche righe. Il vantaggio del cinema sulla letteratura è che da un’idea così ci puoi far nascere un film, bastano le immagini, se orchestrate bene. Badii quindi cerca di convincere tre persone a seppellirlo quella notte, quando lui si sarà già ucciso in una buca sulla collina. Prima un soldatino di leva, che lo ascolta a lungo e poi scappa. Poi un seminarista coranico afghano, che si rifiuta gentilmente per motivi religiosi. Infine il vecchio signor Bagheri, che accetta, ma che gli racconta di quando voleva anche lui ammazzarsi, decenni prima, e il sapore di un gelso l’ha salvato. I dialoghi sono scarni. Il rumore del Land Rover sulle strade sterrate costringe spesso i personaggi a chiedersi: «Che cosa? Eh?». L’ipnosi allora è nel lavoro di regia di Kiarostami, negli sguardi, nelle incertezze. Nelle richieste dure, disperate di Badii e nelle risposte spaventate e imbarazzate dei passeggeri. Guarderei Il sapore della ciliegia cento volte per accorgermi ogni volta di un’espressione che non avevo notato che attraversa, fugace, lo sguardo di uno dei volti inquadrati. E dire che Badii vede anche bambini che giocano a scuola, universitari felici, e giardinieri volenterosi che lo aiutano a rimettere l’auto in carreggiata dopo che ha preso una brutta buca. C’è abbastanza bellezza da convincerlo a cambiare idea, pensi tu. Ma è un trucco: la bellezza l’hai vista solo te, e solo attraverso lo schermo: non il signor Badii. La salvezza, insomma, è offerta da Kiarostami. Il gelso, o la ciliegia del titolo italiano, diventa il film stesso.
Picnic a Hanging Rock, Peter Weir (1975)
Il giardino delle vergini suicide, Sofia Coppola (1999)
Non c’è niente di più normale, per un’adolescente, che sentirsi speciale. Ma c’è un modo particolare di sentirsi speciale che è identico al modo di sentirsi speciale di tutte le altre adolescenti. E cioè quello che abbraccia quella vibe misteriosa e malinconica che passa da Picnic a Hanging Rock di Peter Weir e dal Giardino delle vergini suicide di Sofia Coppola (tratto dal romanzo d’esordio del 1993 di Jeffrey Eugenides). La luccicante convivenza tra un’attrazione quasi erotica per la morte e la leziosità dei dettagli che rendono il mondo femminile un luogo così esotico agli occhi di chi ne è escluso: le scritte sul diario, il nome della crush ricamato sulle mutandine, la trasformazione della cameretta in un regno iper-decorato che protegge dall’esterno ma finisce per funzionare come una prigione infiocchettata, un reggiseno rosa appeso al crocifisso sopra al letto, la purezza infantile piacevolmente corrotta dalla ricerca spasmodica della lussuria, come succede a Lux – Kirsten Dunst. Uno stile estetico che si è evoluto negli anni restando in un certo senso sempre uguale: da Rookie di Tavi Gevinson (non guardatelo adesso: intendo com’era nel 2011) ai pale blog di tumblr, dove le ragazzine pubblicavano foto delle vene tagliate nel (presunto) tentativo di suicidarsi coperte da cerotti di Hello Kitty, così come la più piccola delle sorelle Lisbon “nascondeva” le bende ai polsi con decine di braccialetti di perline. E poi i vestiti bianchi col pizzo, i capelli lunghi, un mix di cuteness e orrore ben rappresentato dalla scena di Picnic in cui si vede la torta a forma di cuore preparata per festeggiare per il giorno di San Valentino ricoperta di formiche, o da una delle sorelle Lisbon che buttandosi dalla finestra rimane infilzata in uno spuntone della cancellata. Lana Del Rey è il frutto della stessa estetica: emersa all’improvviso mescolando il sangue di “Born To Die” alle rose rosse di “Video Game”, ha continuato a puntare sull’accoppiata vincente – bellezza e tristezza – che l’ha resa un esempio anche su TikTok e per la Gen Z, ragazzine che ai tempi dell’album Ultraviolence, in cui canta il loro inno, “Pretty When You Cry”, andavano ancora alle elementari. Ai suoi concerti sembra di essere a una riunione di cosplay di questi due film, Il giardino e Picnic. Un’estetica che unisce due generazioni e chissà quante ancora, una religione che, tra l’altro, è appena stata fornita di una nuova bibbia (rosa, ovviamente), il Sofia Coppola Archive, pubblicato a Settembre da Mack.CONTINUA A LEGGERE SU CARTOMANZIA GRATIS