LAVORO E SETTIMANA CORTA, ECCO PERCHÉ SERVE ANCHE IN ITALIA. LUCA SOLARI, PROFESSORE ORDINARIO DELL’UNIVERSITÀ STATALE DI MILANO ED ESPERTO DI ORGANIZZAZIONE AZIENDALE, SPIEGA A MONEY I BENEFICI PER AZIENDE E DIPENDENTI.
La settimana corta può davvero servire a sbloccare il mercato del lavoro? Luca Solari, professore ordinario dell’Università Statale di Milano ed esperto di Organizzazione aziendale, spiega in un’intervista a Money.it perché applicare la settimana lavorativa di quattro giorni può portare diversi benefici, sia per le aziende che per i dipendenti.
Il modello aziendale italiano, basato soprattutto su piccole e medie imprese, non sembra adattarsi facilmente alla settimana corta, ma questo non vuol dire che non si possa ugualmente andare in questa direzione. Sicuramente, spiega il professore, la soluzione migliore non è una regolazione nazionale della disciplina, ma è meglio che siano le singole aziende a decidere. Non un modello unico, quindi, ma bisogna “andare verso una pluralità di soluzioni, perché proprio la competizione produce effetti potenziali”.
Applicare la settimana lavorativa di quattro giorni potrebbe aiutare le aziende a tagliare modelli di funzionamento poco razionali, come il “proliferare di riunioni non sempre utili”. Ma aiuterebbe anche i lavoratori che potranno avere più possibilità di scelta: “Se un’azienda lavora su quattro giorni è evidente che le persone saranno più attratte, così magari un’altra azienda per attrarre i lavoratori dovrà pagarli di più”.
In sostanza, spiega Solari, l’applicazione della settimana corta può servire a capire quanta “attività improduttiva” viene svolta su cinque giorni di lavoro. E può servire anche a creare maggiore competizione tra diversi modelli, rivoluzionando almeno in parte il mercato.
È difficile prevedere se la settimana corta prenderà davvero piede in Italia, ma qualche dubbio il professore lo solleva sottolineando che “gli elementi di trasformazione, se non obbligati, riguardano una percentuale minima di imprese” nel nostro Paese. Su questo fronte l’Italia rischia di pagare ancora “un deficit culturale di competenze, di capacità organizzative e di cultura manageriale, che riguarda soprattutto le piccole imprese”.