CARTOMANZIA GRATIS NEWSIl debito pubblico sta arrivando a quota 3.000 miliardi di euro e il suo costo in interessi per lo Stato raddoppierà, a oltre cento miliardi l’anno. Ora che c’è la Nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza (Nadef), diventa possibile alzare il coperchio e guardare dentro i suoi obiettivi. Sulla base dei dati e delle proiezioni del ministero dell’Economia, si può misurare cosa deve succedere e cosa implicherebbe nella realtà raggiungere i risultati che il governo si prefigge.
Fra questi il più importante è proprio una sostanziale stabilizzazione del debito. La Nadef stessa mostra almeno un paio di ottime ragioni che renderebbero essenziale fermare l’ascesa del debito e poi farlo scendere. La prima è proprio nel fatto che l’anno prossimo – o al più tardi a inizio 2025 – il totale del debito delle amministrazioni pubbliche in Italia raggiungerà quota tremila miliardi.
È una soglia simbolica, ma di rilevanza assoluta. C’è poi una seconda ragione per cui questa dovrebbe diventare la priorità di tutto il Paese: il costo degli interessi sul debito pubblico italiano (quasi) raddoppia da 57 miliardi di euro pagati nel 2020 a 103 miliardi del 2026. Tale aumento implica che nel 2026, quando dovrebbe concludersi il ciclo del Piano nazionale di riforma (Pnrr), lo Stato spenderà più in interessi sul debito accumulato in un passato remoto e recente, che in investimenti per il futuro; e spenderà in oneri sul debito non molto meno di quanto spende per la sanità, mentre ancora nel 2020 il bilancio sanitario era pari a più del doppio della spesa per interessi.
La Nadef presenta una strategia non per invertire, ma per fermare la direzione del debito: migliorare il saldo di bilancio dello Stato di oltre tre punti di prodotto interno lordo, al netto degli interessi. In sostanza oggi lo Stato è in deficit dell’1,5% del Pil prima ancora di pagare le cedole sui suoi titoli; nel 2026 dovrà essere in surplus dell’1,6% del Pil. E perché ciò accada si può lavorare solo sulle entrate fiscali e su tutte le spese, meno che su quelle (vincolate) per interessi. È su questi fattori che si misura la credibilità del governo.
Da quest’anno al 2026 le entrate fiscali calcolate in euro al valore corrente aumentano di circa 72 miliardi. Perché i conti tornino è dunque necessario che la spesa da adesso al 2026 cresca molto meno delle entrate. E almeno nelle tabelle della Nadef, lo fa: sempre senza contare gli interessi sul debito – che galoppano – la spesa per il funzionamento dello Stato, quella per far fronte alla Sanità e a tutte le altre prestazioni sociali cresce di appena 11 miliardi fino al 2026. Poiché in totale essa è di mille miliardi, in apparenza cresce appena dell’uno per cento.
Nella realtà invece quello presentato dalla Nadef «a legislazione vigente» è un taglio di oltre il 10% in termini reali di tutta la spesa pubblica, perché il «deflatore dei consumi» – cioè il costo della vita – si prevede che aumenti del 12% durante lo stesso periodo. In sostanza la precondizione per stabilizzare il debito – neanche per ridurlo – è un drastico taglio in termini effettivi nel bilancio dello Stato. Per capire se può funzionare, bisogna guardarci dentro un po’ meglio. In questo periodo fra il 2023 e il 2026 la spesa per pensioni cresce di quasi 44 miliardi (più 13,7%), più in fretta dell’economia e più dell’inflazione, perché gli italiani invecchiano e gli adeguamenti al carovita sono automatici per legge.
Tutto il resto della spesa pubblica va dunque compresso o tagliato ancora di più. Infatti nelle proiezioni della Nadef i redditi degli statali decrescono del 12% in termini reali, la spesa sanitaria decresce del 9%, e così via. Al 2026 il totale della spesa pubblica, in proporzione alle dimensioni dell’economia, dovrebbe essere più basso di oggi di 88 miliardi di euro. Una falcidie di proporzioni storiche. È uno scenario credibile? Forse no, lo stress nella società e nella macchina amministrativa sarebbe troppo forte. Ma queste sono le sole proiezioni che permettono di far credere, almeno sulla carta, a una stabilizzazione del debito. Il 2024 sarà determinante per capire la direzione che vuole prendere il Paese. Primo, perché salvo sorprese sarà approvato il nuovo Patto di Stabilità Ue. Che sarà rinnovato con maggiore flessibilità, ma difficilmente allentato sulle regole di bilancio di base. Secondo, perché la contrazione prevista dall’Italia è ridotta ai minimi termini. Lo si nota nel quadro programmatico di finanza pubblica, in netto deterioramento.
Per l’anno in corso si prevede un rapporto debito/Pil del 137,4%, per il prossimo anno del 137,5%, per il 2025 del 137,4% e per il 2026 del 137,2 per cento. Il tutto al netto dei sostegni governativi. Sono questi i numeri che preoccupano di più gli investitori istituzionali, da un lato, e i policymaker europei, dall’altro. Ne deriva che, si scrive nella Nadef, «nel 2024 e 2025, il rapporto debito/Pil calerà lievemente, fino al 139,9 per cento (al lordo dei sostegni, ndr), anche grazie ad un parziale utilizzo delle disponibilità liquide del Tesoro e all’avvio di un piano di dismissioni di partecipazioni dello Stato». Nello specifico, «sul rallentamento del ritmo di discesa pesano sia i diversi fattori che influenzano gli andamenti di finanza pubblica a legislazione vigente già descritti, sia l’impatto sul saldo primario del 2024 e del 2025 derivante dalla prossima manovra di finanza pubblica».
In altre parole, le prossime due leggi di Bilancio nascono già con un deficit implicito che riduce lo spazio fiscale. Il tasso del Btp decennale è a quota 4,78% alla chiusura di venerdì scorso. Lo scorso 19 gennaio era al 3,77 per cento. Ma avrà un impatto, almeno dal punto di vista contabile, ridotto rispetto alle attese. Così il Tesoro: «Il recente aggiornamento delle stime di consuntivo dell’Istat ha rivisto al rialzo il livello del Pil nominale di 34,7 miliardi nel 2021 e 37,3 miliardi nel 2022». Di conseguenza, «le stime di preconsuntivo degli interessi passivi sono riviste in chiave migliorativa di circa un decimo di punto di Pil in entrambi gli anni del biennio 2021-2022 rispetto ad aprile». Tradotto ai minimi termini, la spesa per interessi passivi sul debito è vista «scendere al 3,8 per cento nel 2023 e quindi tornare a salire fino al 4,6 per cento nel 2026». Fino a superare quota 100 miliardi.
A peggiorare l’umore degli investitori internazionali è la scelta di ricorrere al mercato dei titoli di Stato andando a cercare di autarchizzare il debito italiano. Ultimo esempio? Il Btp Valore, che va in emissione domani: «Può superare i 20 miliardi di slancio, ma a che prezzo per lo Stato italiano?», evidenzia un gestore di hedge fund londinese che poi spiega: «Il problema è che non si può pensare di piazzare titoli sul mercato retail solo per finanziare i costi dello Stato». E fa riflettere anche la scelta del Tesoro di aumentare, unico Paese dell’Eurozona, le emissioni nel quarto trimestre dell’anno. Da 320 miliardi a 333 miliardi: «Non è un bel segnale, perché significa maggiore incertezza, più vulnerabilità, meno risorse per la crescita», afferma il finanziere britannico.
Vero, lo spread fra Btp e Bund è più sottile di un anno fa, come ribadiscono i colonnelli del governo. Ma è altrettanto vero che ciò che conta è a che tasso il Tesoro va sul mercato dei titoli di Stato. Per i Btp siamo ai massimi dal 2012. Certo, incide il maxi rialzo dei tassi da parte della Bce (450 punti da luglio 2022 a oggi), ma come rimarcato da Bridgewater, «sta tornando il rischio-Paese». Ed è proprio quello che stanno considerando anche le agenzie di rating. Venerdì 20 ottobre inizierà S&P Global, che dovrebbe rivedere al ribasso l’outlook, da stabile a negativo. Poi, il 10 novembre, sarà la volta di Fitch, che potrebbe optare per una mossa simile. Sette giorni dopo, il 17 novembre, toccherà a Moody’s dopo la «pausa di riflessione» dello scorso 19 maggio. L’outlook è negativo, il rating è a un passo dal livello “junk” (spazzatura, ndr). Qualora ci fosse un declassamento, le similitudini con il 2011 sarebbero sempre di più.CONTINUA A LEGGERE SU CARTOMANZIA GRATIS