CARTOMANZIA GRATIS NEWS«Sono in Italia per raccontare la verità sull’uccisione di mio zio Pablo Neruda perché in Cile questa verità non è apprezzata. Anche noi familiari, per quasi quarant’anni, avevamo creduto alla versione ufficiale sulla morte naturale; ma le evidenze emerse negli ultimi dodici danno ragione alla frase che mi disse mia mamma quella notte del 23 settembre 1973, quando la Radio Cooperativa diede la notizia della sua scomparsa, alla Clinica Santa Maria di Santiago del Cile. Lo disse d’istinto: “A tuo zio lo mataron, l’hanno ammazzato”». L’avvocato Rodolfo Reyes parla mentre cammina per quelle stesse vie dell’Isola di Capri che lo zio Pablo, fratello del padre, aveva conosciuto nel 1952. Con lui ci sono la collega (e compagna nella vita) Elisabeth Flores e lo scrittore Roberto Ippolito, autore di un libro-inchiesta (Delitto Neruda, Chiarelettere) in cui le prove a carico della tesi dell’omicidio del Premio Nobel sono anticipate una per una, che rivela «ogni dettaglio della morte del poeta e dimostra la falsità della versione ufficiale che la attribuisce al cancro».
Avvocato Reyes, lei quanti anni aveva quando morì suo zio?
«Ventiquattro. Eravamo in pieno colpo di Stato, il Cile era nel caos, Pinochet aveva preso il potere. Dodici giorni prima avevano ucciso Salvador Allende e poi il cantante Victor Jara. Rimaneva una sola grande icona internazionale da far tacere per sempre: Pablo Neruda».
Quando l’aveva visto l’ultima volta?
«Qualche mese prima, l’ultimo sabato del marzo 1973, eravamo andati con mio papà e mio fratello a trovarlo nella casa di Isla Negra. Gli avevamo portato una fotografia che risaliva alla campagna delle presidenziali di tre anni prima. La moglie, Matilde, guardando quello scatto gli aveva detto: “Pablo, è l’unica foto in cui sei uscito bene”. Lui prese la foto e scrisse: “Isla Negra, marzo 1973: A los nuevos Reyes, un viejo Reyes” (“Ai nuovi Reyes, da un vecchio Reyes”, il suo cognome all’anagrafe, ndr)».
Era malato terminale di cancro alla prostata, come scritto poi sul certificato di morte?
«No, stava bene. Era un po’ lento nel parlare e nel camminare ma secondo i medici avrebbe potuto sopravvivere altri sei anni».
A marzo suo zio temeva il golpe?
«Mi aveva regalato una copia del libro che aveva appena finito, Incitación al Nixonicidio y alabanza de la revolución chilena, contro Nixon e in lode alla rivoluzione. Certo, si era in piena campagna per le elezioni politiche, il boicottaggio della destra era molto forte e aveva il sostegno della Cia, di Kissinger, della Casa Bianca; ma di un colpo di Stato forse no, non riusciva a capacitarsi. Consideri che Pablo e Allende erano legatissimi: nel 1970 mio zio era stato proposto per la presidenza del Cile dal Partito comunista ma era stato felicissimo di fare un passo indietro quando il nome di Allende, socialista, aveva reso possibile la coalizione dell’Unidad popular, che poi avrebbe vinto le elezioni».
23 settembre 1973: la radio dà la notizia della morte di Neruda. Che cosa succede dopo?
«Mio padre Rodolfo, che stava male, mi disse di andare nella Clinica Santa Maria tenendo gli occhi molto aperti, soprattutto per dare sostegno alla zia Laura (l’altra sorella di Pablo e Rodolfo senior, ndr) e a Matilde. Il corpo era appena stato frettolosamente portato via e poi abbandonato in un corridoio fuori dalla cappella; lo avrebbero recuperato la mattina dopo grazie all’insistenza di Matilde, che pretendeva di portarlo a casa, alla Chascona. Seduta su una panca, disse: “Voglio portarlo a casa, voglio che il mondo sappia!”. Alla fine riuscì a farselo consegnare».
Lei vide il corpo di suo zio Pablo?
«La mattina dopo, quando arrivai alla Clinica, poco prima che lo portassero via. La bara era aperta ma si vedeva solo la testa. Quando arrivammo alla Chascona, trovammo la casa totalmente devastata, i quadri sfregiati, i materassi tagliati».
Erano stati gli uomini di Pinochet?
«Sì. Era tutto allagato. Per far entrare la bara in casa fummo costretti a usare delle assi di legno e a passare dal garage».
L’inchiesta sull’omicidio di Pablo Neruda si apre grazie a una querela del Partito comunista, nel 2011, e alle rivelazioni del suo autista, Manuel Araya.
«Quando venne ucciso mio zio Pablo stava per andare in Messico con un aereo messo a disposizione dal presidente Luis Echeverria, che aveva pianificato il viaggio dopo il golpe di Pinochet. Sabato 22 settembre il volo era pronto sulla pista dell’aeroporto di Santiago. Fu mio zio a dire di voler rimanere in Cile anche la domenica 23 per poi partire per Città del Messico lunedì 24. Il giorno prima aveva mandato Matilde e l’autista Manuel Araya a Isla Negra a prendere delle cose che avrebbe dovuto portare con sé. Poi fece dalla clinica la telefonata rimasta segreta per molti anni e rivelata da Manuel, in cui disse che gli avevano fatto un’iniezione nella pancia e che si sentiva improvvisamente molto, molto male. Dopo aver esaminato tutte le carte, come rappresentante legale dei familiari mi sono unito alla causa».
Perché Neruda aveva deciso di ricoverarsi alla Clinica Santa Maria?
«Probabilmente faceva parte di un piano per arrivare sano e salvo all’aeroporto, che si trovava molto vicino».
Che senso aveva ucciderlo dopo che il golpe aveva avuto successo?
«Ucciso Allende, ucciso Jara, l’unica leggenda vivente del Cile conosciuta in tutto il mondo rimaneva Pablo Neruda. Che dal Messico avrebbe potuto riunire le forze democratiche per rovesciare Pinochet».
Che cosa lo uccise, secondo lei?
«Quell’iniezione nello stomaco, confermata dal buco rosso all’altezza della pancia. Sappiamo che nel corpo, riesumato a seguito della querela del 2011, all’altezza di un molare è stato trovato un batterio la cui tossina è considerata la seconda arma più letale al mondo. E adesso sappiamo anche che il clostidrium botulinum non poteva essere arrivato là con una cura dentistica, visto che quel molare non era mai stato curato; né che poteva essere presente nel terreno in cui lo zio Pablo era sepolto».
E poi che cosa cambiò?
«Tutto, a cominciare dal giorno in cui finalmente vidi il certificato di morte. C’era scritto “cachessia cancerosa cancro prostatico”. Quindi indebolimento del corpo a causa del cancro, come se fosse scheletrico. Ecco: quando morì, Pablo Neruda pesava novanta chili!».
E adesso?
«Racconto in Italia quella verità a cui il Cile non sembra interessato, sperando che il rumore arrivi fino a lì. È ormai tutto chiaro: mio zio Pablo è stato ucciso ma in troppi, a cinquant’anni esatti dalla morte, non vogliono ancora che una sentenza lo certifichi».CONTINUA A LEGGERE SU CARTOMANZIA GRATIS