ECCO IL SEGRETO DI BRUCE SPRINGSTEEN CON BORN IN THE USA

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Born in the Usa è l’album che spinge Bruce verso la gloria definitiva – 7 singoli nei top 10, 30 milioni di copie vendute, l’album che lo porta dai teatri negli stadi– e illustra magnificamente come un messaggio può essere frainteso non a seconda delle parole, ma del suono.

Perché la title track nasce come folk blues acustico nella vena del precedente Nebraska, un disco tenebroso, scarno, inaspettato, canzoni che raccontano il lato noir di un’America fratturata nello spirito e nei valori. Poi, a contrasto e a sorpresa, ritorna con il suono più bombastico della sua carriera. A pensarci bene, di tutta la sua carriera.

All’inizio la chiama Vietnam, poi trova il suo titolo quando legge il titolo dello script omonimo che il regista Paul Shrader gli ha inviato. Nasce come una canzone ispirata dal film 4th of July, i reduci della guerra in Vietnam prima costretti a sparare «all’uomo giallo», poi respinti al ritorno a casa, che non trovano un posto nella vita civile: «Nessun posto dove correre/nessun posto dove andare».

Il testo è pieno di sconforto, rabbia e delusione, ma quel suono grandioso, rullante picchiato con suono di cannone, chitarre sovramplificate e synth a rinforzare il tutto (un template per il rock degli Anni ’80), quel grido che è di rabbia, ma viene interpretato come di gioia e grandeur patriottica, deviano l’attenzione, falsificano l’intento originale.

«La combinazione di blues “giù” e il ritornello “su” – ha scritto nello sua biografia Born To Run – la sua pretesa del diritto a esser una voce critica del patriottismo a fianco dell’orgoglio del luogo di nascita era troppo conflittuale per gli ascoltatori più superficiali. I dischi sono spesso dei test di Rorshach auditivi: sentiamo quello che vogliamo sentire».

Compreso Reagan, che lo suona nella campagna presidenziale del 1984 elogiando il suo spirito da vero americano; Bruce, piccato, in concerto risponderà «forse il Presidente non conosce le altre mie canzoni», prima di eseguire Johnny 99, una delle storie più drammatiche di Nebraska, un ragazzo che uccide per poter pagare il mutuo.

Quel primo brano e l’ultimo, My Hometown (e I’m on Fire, grondante desiderio sessuale insoddisfatto) sono i due brani di maggiore profondità in un album perlopiù su di spirito, a partire dal singolo, Dancing in the Dark, quello che il produttore Landau gli chiede dopo che ha già scritto e registrato qualcosa come 40 canzoni. Sarà il primo video ufficiale di Bruce, quello che aprirà la pista all’Lp, e inaugurerà il rito del tirar su una spettatrice dalla platea a ballare con lui (allora, una sconosciuta Courtney Cox, poi star tv di Friends).

Quel tono ottimista finale («Voglio dormire sotto cieli pacifici…con negli occhi un Paese aperto, e questi sogni romantici in testa») lascia lui stesso un po’ a disagio: «Nella vita non resisti e trionfi sempre. Cerchi un compromesso, soffri delle sconfitte; scivoli nelle aree grigie della vita».

Perché è vero che sono i sogni a tenerti vivo, ma è anche vero che la realtà a volte ti arriva in faccia, o nei ricordi, e non può essere cancellata con un buon ritornello. My Hometown, appunto, è una ballata lenta e gravida di pensieri: c’è il piccolo Bruce che siede sulle ginocchia di papà che guida passando in rassegna le case della sua cittadina, si chiude con lui e il giovane figlio sulle ginocchia che guida per la stessa strada, una città ormai quasi abbandonata e fantasma, in testa il pensiero di andarsene via, in cerca di fortuna.

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