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Vincenzo De Luca è diventato il caratterista di sé stesso. In un copione che nelle ultime pagine prevede la sua Nemesi, impersonata da ciò che di più distante da lui sia mai comparso in politica, Elly Schlein. All’indigesta segretaria bolognese-svizzera-americana, che gli ha commissariato il partito campano con un bergamasco espansivo come un ceppo di arenaria (l’ottimo Antonio Misiani), ha dunque dedicato l’ultima insolenza del catalogo, «cacicca ante litteram», e l’ultima stilettata,
«Pasolini non aveva consapevolezza dell’armocromia, un’ora con l’armocromista sono due terzi di pensione minima»: anche se, come osserva Enzo D’Errico sul Corriere del Mezzogiorno, col nostro eroe è meglio star cauti e parlare sempre di «penultima sortita», perché magari l’ultima la sta sparando proprio ora, mentre voi leggete queste righe.
Di sicuro, il governatore della Campania s’è molto immedesimato nella parte. Ed è stato molto creduto. «Vicienzo c’è pate a nnuie»: Vincenzo è nostro padre, recitano, parafrasando Scarpetta, i cartelli issati dai popolani dei rioni scesi fin sotto Palazzo di Città, la sera della sua terza, prodigiosa, rielezione a sindaco di Salerno nel 2006, da cane sciolto e contro il centrosinistra.
Lui s’è conquistato quella folla dolente bonificandole i vicoli del centro prima impraticabili, alla guida dei vigili urbani, stando stavolta dall’altra parte del manganello, contro spacciatori, extracomunitari e in generale «racailles», per dirla con Sarkozy. Diventa «Vicienzo ‘O Sceriffo» e il copione comincia così.
Prevede lunghe paternali dal pulpito di Lira Tv (con filmati-gogna per chi lascia la «munnezza» fuori posto), un partito-famiglia da proiettare nel futuro (il secondo sgarro di Elly è avergli rimosso il figlio Piero da vicecapogruppo alla Camera), una certa megalomania (col sogno, poi girato in facezia, d’un proprio mausoleo in piazza Libertà, nel cuore di Salerno), la contumelia come manganello nella politica maggiore.
Così, Rosy Bindi, che da presidente dell’Antimafia lo mette tra gli «impresentabili» per un abuso d’ufficio da cui uscirà assolto, diventa «impresentabile lei, in tutti i sensi», «da uccidere», salvo poi derubricare la sortita in «atto di delinquenza giornalistica» minacciando querele. Il trio pentastellato,
Di Battista, Di Maio e Fico, viene marchiato con un «tre mezze pippe, miracolati» («ma anche nel Pd ho trovato pippe e fior di farabutti», specifica il nostro, a seguire). Di Maio è bersaglio facile: De Luca gli dà del «Charlie Brown», ricordando che nella sua Pomigliano ha preso 60 voti, «doveva fare il carpentiere, poi s’è perso per strada e ce lo ritroviamo vicepresidente della Camera».
Quando quello esce dai Cinque Stelle e diventa un possibile alleato, scatta però la riabilitazione e ora, da inviato nel Golfo Persico, il buon Gigino è «un italiano cui viene destinata una grande responsabilità dall’Europa», amen. Con Salvini, suo naturale antagonista teatrale, ha un tocco da querela: «Capitone», «fondoschiena usurato».
Perfino il Capitano leghista, pure uso a distribuire improperi, appare interdetto: «Indegno continuare su questa strada». Per non offendersi, basta rammentare che «Vicienzo» non è reale. Pare che in gran parte non lo fossero nemmeno i manganelli in mano ai suoi vigili. Lo raccontò un suo luogotenente deluso: «Di veri ce n’erano venti, gli altri erano di plastica, per i fotografi».
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