“L’OSSESSIONE PER LA PRIVACY? UNA BATTAGLIA INUTILE” (TANTO ALLA FINE CI CONOSCIAMO TUTTI) – CONCITA DE GREGORIO RACCONTA DI UNA SALA D’ATTESA CON CENTO ESTRANEI, DI UN CELLULARE DIMENTICATO A CASA E DELL’ESCAMOTAGE UTILIZZATO PER CHIAMARE FIGLI E MARITO – “ALMENO CON DODICI DELLE PERSONE DI QUELLA SALA AVEVAMO SUI SOCIAL QUALCUNO IN COMUNE. ESISTE LA PRIVACY QUANDO SIAMO IN REALTÀ TUTTI COLLEGATI DA QUALCUNO CHE ABBIAMO “IN COMUNE? NO, LA PRIVACY È UN GENDARME INUTILE. NON SIAMO MAI ANONIMI”…
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Una piccola storia personale che mi fa sorridere e pensare da giorni: sull’ossessione per la privacy in cui viviamo immersi, in certe occasioni burocratiche un vero delirio, e sull’essere – questa sulla privacy – una battaglia inutile. Perché in un attimo, in una platea di sconosciuti identificati solo da un numero, tutti ci scopriamo collegati. Tutti sappiamo ogni cosa di ciascuno, siamo in grado addirittura di avere accesso ai propri gusti personali, agli amici comuni, ai reciproci numeri di telefono. E meno male, nel caso che sto per raccontare. La storia è questa. Entro come ogni giorno nella grande sala d’attesa di un luogo pubblico dove passerò in compagnia di un centinaio di persone le prossime ore. Ci conosciamo, da mesi, ma non ci conosciamo: siamo identificati da sigle, questione di privacy. Mi accorgo di non avere il telefono.
Mi ero accordata così, uscendo: quando ho finito chiamo, venitemi a prendere. Naturalmente non potrò chiamare. A un certo punto, forse a tarda sera, sarò chiamata per avere mie notizie e non potrò rispondere. Si annuncia una serata infernale. Come faccio ad avvisare qualcuno di cui non conosco il numero? Posso chiedere a una delle persone in sala d’attesa di prestarmi il telefono, ma poi? Chi chiamo, se non so il numero?
I social network. Posso entrare su Instagram, su Facebook o quel che sia di uno dei miei figli e mandare un messaggio, per esempio. Proviamo. Le persone in sala d’attesa sono solo numeri. E126. A405. Siamo tutti coperti da mascherine, oltretutto: non ci riconosceremmo fuori da qui, ne sono certa. Qui ci distinguiamo dagli occhi, brevi cenni di saluto con la testa. Qualche giorno fa, però, U307 – una ragazza molto giovane, gentile – mi ha raccontato di essere un’appassionata lettrice, mi ha fatto il nome di alcuni autori che ama, abbiamo parlato di libri e salutandomi mi ha detto piacere, Francesca. Vado da Francesca. Le chiedo di entrare sul profilo Facebook o Instagram dei miei familiari per mandar loro un messaggio. Lo fa, ma il problema è che i miei familiari non la seguono, non sono – naturalmente – suoi follower. Dunque, siccome per le regole dell’Internet se non sei “amico” non puoi scambiare messaggi né, figuriamoci, telefonare attraverso quel mezzo, attendiamo che i destinatari della richiesta accettino l’amicizia.
Sono le quattro del pomeriggio, passo in rassegna mentalmente cosa staranno facendo i miei consanguinei nelle loro vite, escludo una reazione abbastanza rapida da evitare le serata infernale. Mai disperare, ma cerchiamo altre vie. Intanto l’attenzione della platea della sala d’attesa si concentra su di noi: consigli, altri telefoni che si attivano, un certo entusiasmo per la novità inattesa, un pezzo di vita che si incunea nell’abituale tran tran. Solidarietà fra numeri. Ora il colpo di scena.
Nella richiesta di amicizia di U307 (Francesca) a mio marito (sì, abbiamo coinvolto anche lui sebbene la sua frequentazione dei social sia minima, ma appunto: non si sa mai) compare la scritta: avete un amico in comune. È una scrittrice di cui U307 è fan, in virtù della sua passione per la letteratura. La scrittrice è una cara amica di famiglia che non sento da molto tempo. E però a lei U307 può mandare un messaggio. Lo fa, anzi lo faccio io. La sala d’attesa è ormai tutta alle nostre spalle, una curva che tifa. Scrivo «Ciao, scusami, sono Concita. Ho bisogno di te. Rispondi se puoi».
Succede l’imponderabile. L’amica scrittrice risponde. «Questo non è il profilo di Concita – scrive – se sei davvero Concita dimostralo». Dimostro, con un aneddoto. (L’amica scrittrice mi dirà più tardi che mai nella vita aveva risposto a un messaggio, a una telefonata arrivata da Facebook da un profilo sconosciuto ma che quel giorno, poiché era a sua volta in una condizione di attesa col telefono in mano, per qualche oscura ragione l’ha fatto). La persona in comune fra U307 e mio marito si attiva, lo chiama. Lui naturalmente non risponde, sono cose che capitano. Però intanto diversi altri, coinvolti dall’emergenza, avevano chiesto amicizia ai miei figli – che hanno avuto quel pomeriggio una insolita sollecitazione da parte di sconosciuti. Chissà cosa avranno pensato.
Finisce che un figlio risponde. Accetta. Ciao sono mamma. Sono senza telefono. Avvisa papà. Sei mamma? Sì, sono mamma. Aneddoto di conferma. La scrittrice nel frattempo richiama. Ci parliamo dal telefono di U307. Mi dice: che storia incredibile. Le dico: davvero. Per strade diverse, il caso si risolve. Almeno con dodici (ma forse venti, ho calcolato a spanne) delle persone-numero in sala d’attesa avevamo qualcuno in comune. Siamo tutti, ora, diventati “amici”. Esiste, la privacy? Esiste la possibilità di trasformarci in numeri quando siamo in realtà tutti collegati da qualcuno che abbiamo “in comune”, uno due sei gradi di separazione al massimo? La privacy, sorridevo stanotte, ma quale privacy. Pazienza, no? A605 ora è un amico, di Francesca so il cognome e magari in futuro saremo amiche anche nella vita. Già ora, grande gratitudine. La privacy non esiste, è un gendarme inutile. Magari sarà un problema, per qualcuno. Di certo lo è. Non siamo mai soli, mai anonimi. Per me comunque, oggi, va bene così.
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