«Nel 2009, mi chiede di andare da lui a Sochi. Due ore e mezzo di chiacchierata, e tre bottiglie di vino bianco. All’improvviso, dal nulla, comincia a parlare della Crimea. Io allora gli chiedo: ma quindi facciamo la guerra anche con l’Ucraina? Lui mi risponde: mai. Ma poi aggiunge: vedi Alyosha, non è storicamente giusto che la Crimea resti a loro. Se succede qualcosa, e quella regione cade dalle mani degli ucraini, io me la prendo. Poco dopo l’invasione del 2014, vado a pranzo al Cremlino.
Mi dice: allora, sei d’accordo con me? No, rispondo io, c’era un trattato internazionale da rispettare con Kiev. Lui mi risponde: ma non importa, perché è storicamente giusto che la Crimea faccia parte della Russia. E aggiunse: se una cosa è giusta, io la faccio. Quel giorno, capii che non si sarebbe fermato. E che la guerra con l’Ucraina l’avremmo fatta per davvero».
Il sessantottenne Aleksej Venediktov fondatore e proprietario della radio Eco di Mosca, contiene moltitudini. E altrettante contraddizioni.
Negli anni 90 raccontò gli stravolgimenti di quel periodo con la sua radio. È amico di molti oppositori del Cremlino. Ma fa anche parte del sistema. Essendo molto popolare, prestò il volto alla campagna per la digitalizzazione del voto alle amministrative di Mosca del 2013, che secondo le opposizioni «aggiustò» quelle elezioni penalizzando un suo ex redattore, che si chiamava Aleksej Navalny.
Nel marzo del 2022 è stato dichiarato agente straniero in quanto contrario alla guerra. Eppure, continua ad avere il tavolo migliore alla Cantinetta Antinori, a fare le sue trasmissioni online, ad essere uno dei pochi russi che possono andare e venire come gli pare da Parigi e da Londra, ovunque. «Ho un amico al Cremlino e molti amici in prigione. Io parlo con tutti, è la mia filosofia».
«Lui» è infatti Vladimir Putin, con il quale Venediktov ha sempre intrattenuto un rapporto personale. Questa forse è la ragione del suo status […] «Ci siamo sentiti pochi giorni prima del 24 febbraio 2022. Vladimir Vladimirovic, ma cosa stai per fare? Come vivremo dopo? Cosa te ne frega dei chilometri quadrati del Donbass, ne abbiamo quanti vogliamo in Siberia. Mi disse che avrebbe fatto quel che sentiva fosse giusto. E poi mise giù la cornetta».
Siccome forse si sta aprendo una fase nuova nella tragedia ucraina, Venediktov è la persona giusta per capire quanto Putin sarà disposto a concedere a un eventuale tavolo di negoziati convocato dal suo amico Donald Trump.
«Le buone parole spese per il vecchio-nuovo presidente Usa sono pura cortesia. Lui è un calcolatore molto freddo. Comprende la conseguenza dei suoi atti, non delle sue parole. Valuta i fatti. A volte si contraddice, ma solo sulla scena internazionale. Sul fronte domestico, sa che deve mostrarsi granitico. Ha fatto cambiare apposta la Costituzione per evitare qualunque cessione di terreno. Riprenderà Kursk, si terrà il Donbass e la Crimea. Su questo, è il primo a sapere che non può permettersi alcuna concessione. Ormai, è andato troppo in là. Nessun pareggio, Trump o non Trump».
Ma sbaglia chi prevede scenari apocalittici. «Per carità. Quelle sul nucleare sono solo parole. Può provocare, può sbagliare, può far dire ai suoi che attaccherà Parigi, ma sa fare di conto. A modo suo, è un uomo razionale. La sua unica unità di misura è un concetto di giustizia molto personale. Difendere le popolazioni russe all’estero? È giusto. Combattere la Nato? È giusto. Nella sua testa, lui fa le cose giuste. A qualunque prezzo. Se ci sono tanti morti russi come in Ucraina, ma è per una giusta causa, non si ferma certo per questo. E non lo farà neppure per Trump».
L’ultima immagine pescata dal cassetto dei ricordi riguarda una ferita ancora aperta.
«Navalny mi attaccava, ma ho simpatizzato per lui. Non era un politico, non ne capiva molto. Gli dissi di non tornare in Russia, perché sarebbe morto in prigione. Era una persona onesta, che ascoltava le persone sbagliate, gente che voleva prendere il suo posto. Ha sempre avuto cattivi consiglieri.
Nell’ultimo incontro che ho avuto con Putin, poco dopo l’inizio della guerra, gli avevo posto io la questione. Che pericolo rappresenta Navalny per la Russia, signor presidente? Lui mi rispose che questo signore, perché si rifiutava di chiamarlo per nome, anche se non era una spia, era manipolato dai i servizi americani, e che non gli avrebbe mai concesso la grazia, perché una volta fuori avrebbe continuato a corrompere la gioventù russa. Mi disse, Alyosha, capisci che questo non è giusto? La testa di Putin funziona così».